L’esecuzione capitale
L’esecuzione capitale durante il Quattrocento rispettava la consueta tradizione di essere celebrata in pubblico; alla spettacolarità dell’evento si attribuiva una sorta di memento per tutti coloro che vi partecipavano ed era compito delle Confraternite, attraverso la loro opera di conforto ai condannati, riportare l’avvenimento nell’ambito della morte religiosa. Le condanne inflitte erano tra le più terribili: il giustiziato poteva essere decapitato e poi squartato, mazzolato e ugualmente dilaniato, bruciato vivo oppure, nella maggior parte dei casi, impiccato.
Dopo che il giudice aveva pronunciato la condanna, il giustiziato nelle ultime ore precedenti l’esecuzione era confortato da una congregazione preposta allo scopo, che si occupava fondamentalmente di esortarlo ad espiare i propri peccati. Il pentimento poteva non essere immediato e spesso richiedeva un percorso preciso che, dal XVI secolo, seguiva il racconto della Via Crucis, messo in scena come una vera e propria rappresentazione teatrale con tanto di personaggi che vi partecipavano.
I confratelli che assistevano i condannati facevano spesso ricorso alle sacre immagini dove in primo luogo erano rappresentate la passione e la morte di Gesù; al pentimento seguiva la recita di un’Ave Maria e l’invito rivolto al giustiziato a pronunciare le sue ultime volontà. Si concludeva con la celebrazione della Santa Messa, che in alcuni casi poteva essere ripetuta per tre volte consecutive: la prima dedicata ai confratelli, la seconda al condannato e la terza al perdono invocato dal giustiziato con l’assistenza dei confortatori. Iniziava poi la processione verso il luogo del patibolo, dove la folla non si limitava ad assistere lungo il percorso, ma partecipava al corteo intervenendo nelle diverse fasi del rituale. Ad attendere il condannato era il boia. Questa figura ricopriva un ruolo davvero particolare: oltre a dover cinicamente compiere l’esecuzione materiale era tenuto a non commettere nessun errore; un’esecuzione scorretta avrebbe fatto soffrire il giustiziato, facendo così evincere la terribile brutalità della cerimonia. Al carnefice, dato il suo particolare ruolo, spettavano le vesti e talora la facoltà di vivisezionare il corpo, dal quale poteva trarre alcuni parti, che in seguito avrebbe utilizzato per produrre unguenti e medicine. Questi prodotti erano molto ricercati perché essendo creati dalle mani del boia (creduto un mediatore tra la vita e la morte) erano considerati particolarmente efficaci. Talvolta accadeva che, nonostante l’esortazione al pentimento, il condannato mantenesse le proprie idee e non facesse alcun atto di ammissione e di fede; in questo caso i confratelli abbandonavano il proprio compito e il corpo veniva sepolto fuori dalle mura - lontano dalla città - senza che venissero svolte né la processione ufficiale, né la lettura delle litanie, ed escludendo infine l’utilizzo di croci e candele, sempre presenti nelle cerimonie solenni.
Il primo stato ad abolire la pena capitale fu il Granducato di Toscana con l'emanazione del nuovo codice penale toscano firmato il 30 novembre 1786 dal granduca Pietro Leopoldo.
Beato Angelico, Decapitazione dei santi Cosma e Damiano